Il tram
Traduzione: Stefania Ricciardi
Postfazione: Patrick Longuet
L’ultimo romanzo di Claude Simon (ancora inedito in Italia), forse quello più intimo, privato. Una sorta di compendio della sua intera opera, un distillato, asciutto e minimo. Il tram è un processo di sottrazione. Tutto è condensato in poche pagine (una rara eccezione per la scrittura solitamente abbondante e cumulativa di Simon), in un dispiegarsi di scene – quasi un montaggio cinematografico – all’apparenza conchiuse, giustapposte l’una all’altra più che articolate assieme da quello che solitamente chiamiamo l’intreccio, la trama. Di questa non resta che un tracciato, un tragitto, quello di un tram chiamato memoria. Un filo conduttore, sottile ed esile come quella «linea del tram» su cui transitano pendolari e, appena abbozzati, i ricordi dell’autore: l’infanzia a Perpignan, le estati in riva al mare, alcune digressioni proustiane, le sponde del Gange, la guerra, la malattia della madre. Fino all’ultima fermata, prima di sprofondare, come scrive Patrick Longuet nella postfazione, nell’«oblio della sabbia in cui i binari biografici vanno scomparendo». Quasi a voler sottolineare la transitorietà che soggiace a ogni accadimento dell’esistenza. Alla quale d’altro canto sembra alludere, beffarda, la scritta TRANSIT che campeggia sopra una delle stanze di quell’ospedale dove l’autore, ormai ottantenne, trascorre le proprie giornate di degenza. La vita, ci ricorda Simon, non è che un transito attraverso gli «stadi successivi della macchina umana, dalla nascita all’agonia, passando per tutte le deviazioni e le anomalie possibili sino al suo definitivo disfacimento».
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